Continua il viaggio di Arte Fair nel mondo dell’arte cinematografica. In questo terzo appuntamento vi parliamo del “ri-scoperto” cinema messicano con il caso “Amores Perros”
di J. L. D.
ROMA – Continua il viaggio di Arte Fair nel mondo dell’arte cinematografica. Un modo per valutare “il suo stato di salute” ovviamente in termini di creatività, sceneggiatura, artisti e produzioni. Durante le scorse settimane abbiamo parlato del Cinema statunitense e francese, adesso vi parliamo del “ri-scoperto” Cinema messicano. Articolo 226. E’ su questa normativa che si basa la nascita (rinascita) del cinema messicano attuale. L’articolo prevede, forse caso unico nel mondo sottilmente burocratizzato del cinema attuale, deduzioni in materia fiscale, ovvero sottrazione diretta dal reddito complessivo, invece di come accade da altre parti (vedremo poi con l’Italia) la classica detrazione fiscale che avviene su somme già spese sottratte dalle imposte. Questo significa avere maggiori introiti per finanziare una pellicola ma soprattutto averli in tempi brevi.
Dai vicini Stati Uniti, con tono supponente si dice sempre che se hai poco tempo a disposizione non andare mai in Messico dove un minuto dura una vita. In realtà oggi non è più così. Il Paese e’ cambiato dall’ etichetta propinata dell’ingombrante vicino, che, da circa 15 anni vuole ampliare un muro, già di per se’ imbarazzante, da vendere ai propri elettori. Sicuramente la famosa indolenza che in realtà nasconde una più profonda rassegnazione in certi piccoli centri rurali, in certe zone della capital federal Ciudad de Mexico si nota ancora soprattutto nelle frange più anziane della popolazione, ma il fermento, la vitalità della nuova generazione ha pochi riscontri al mondo.
La crisi economica, la disoccupazione endemica si fa sentire qui come e più di altre parti e il cinema non ne è esente. Praticamente le pellicole autoctone non esistono, tutto viene assorbito dal mercato Usa. Le sale sono fatiscenti e quasi sempre deserte. I costi dei film importati non vengono recuperati, neanche in tv dove purtroppo la programmazione e’ incostante e su fasce orarie impossibili, mattina, metà pomeriggio, tarda notte.
Eppure grazie all’articolo 226 in Messico, con l’inizio del nuovo millennio, qualcosa si è mosso. Sono stati i giovani autori a sfruttare questo vantaggio e la presenza nei festival è andata crescendo fino a diventare preponderante rispetto anche a cinematografie europee importanti (Italia e Germania su tutte). Nueva Ola, Nuevo Rinascimiento, qualsiasi tono enfatico riportato dalla stampa nelle sue pochissime e saltuarie rubriche (non esiste uno spazio apposito sui giornali) non aiuta a capire come un Paese che cinematograficamente sembrava in procinto di estinguersi, nell’arco di una quindicina d’anni sia diventato il massimo esportatore di talenti autoriali, ottenendo successi clamorosi di critica e pubblico in tutto il mondo.
Nonostante mille problemi il sistema universitario statale, più di quello privato funziona perfettamente.
Due le scuole cinematografiche che emergono sulle altre, sono tra le migliori al mondo, dalle quali sono usciti tutti i migliori talenti cinematografici di questi anni, come Alfonso Cuaron, Guillermo Del Toro, Alejandro Inarritu, Carlos Reygadas, Arnat Escalante, Nicolas Pereda, Fernando Eimbke, Alonso Ruiz Palacios e Claudia Saint-Luce, ovvero El Centro de Capacitacion Cinematografica e il Centro Universitarios de Estudios Cinematograficos.
Grazie al sistema delle deduzioni fiscali, le scuole ricevono finanziamenti statali come anche le pellicole d’esordio dei giovani talenti. Bisogna dire che rispetto a quindici anni fa il sostegno finanziario è più basso ma questo accade perché le richieste sono in forte aumento e comunque, una volta garantita la fatidica opera prima, di solito autoriale, con forti tendenze all’innovazione visiva, sperimentale a tratti, non mancano i sostegni provenienti dal Festival di Rotterdam, Studio Canal, Bavaria Studios o altri enti europei per lo sviluppo della settima arte.
Il caso ‘Amores perros’
C’è sempre un momento di svolta nella cultura cinematografica di un paese, lo abbiamo visto anche con gli articoli precedenti. Nel caso del Messico (e del cinema mondiale) questo momento si chiama ‘Amores perros’ (Ama i cani), dell’attuale doppio premio Oscar Alejandro GonzàlesInarritu. Tre storie che si intrecciano dove l’elemento comune è il rapporto affettivo (ma non troppo) e piuttosto ambiguo con i cani dei tre protagonisti.
Mercificato nella prima. Serve denaro per un aborto e si utilizza l’animale per guadagnare dal racket dei combattimenti. Interessato e morboso nella seconda. Il cane serve solo per riempire il vuoto affettivo, una carriera spezzata di una modella-attrice basata esclusivamente sull’estetica e quando un incidente le porta via l’unica dote, ovvero la bellezza,il barboncino resta tutto ciò a cui aggrapparsi. Gratuito nella terza. Il branco di cani serve all’ hobo (vagabondo) per riempire un vuoto creato dal crollo delle utopie politico-sociali svanite sotto i colpi della new economy.
‘Ama i cani’. Sembra un monito che un destino beffardo ha riservato ai tre protagonisti per cambiare, per sempre le loro vite. Una fotografia livida, colori impastati, denaturati, montaggio che passa dal frenetico, schizofrenico, a un’inquietante lentezza come se volesse descrivere le menti dei tre personaggi. Un finale di “speranza”di-sperata. Tutto si è detto a proposito e a sproposito della pellicola che da cult giovanilistico è oggi considerato (purtroppo da pochi critici ma la professione è in forte declino) quello che realmente e’:un capolavoro. Lo dice il tempo che passa e lo dirà per molti anni a venire.
Tutto il movimento, che ne è seguito, deve molto a questo film. Tutti si sono confrontati con l’opera di Inarritu, lui stesso non ha raggiunto più questo livello, nonostante i budget hollywoodiani,ma una cosa è certa, avere un simile film come riferimento ha portato a realizzare pellicole di livello medio alto che hanno fatto lievitare lo standard di questa cinematografia.
Basti citare,’Japan Post tenebra lux’ di Carlos Reygadas, cantore dell’impossibilità di vivere una vita ”normale” sia dentro o fuori la famiglia ormai in crisi anche in un paese dove ha un ruolo iconico-sacrale; ‘La Spina del diavolo’ e il ‘Labirinto del Fauno’ di Guillermo Del Toro autore di spirito fantasy ma radicato nella “vera vida” dell’escuela mexicana che non scinde i due aspetti e li evoca perfettamente simbionti in una realistica favola crudele; ‘La Zona’ e ‘Un mostro dalle mille teste’ di Rodrigo Pla’ molto vicino alle tematiche di denuncia sociale, il Kenloach messicano che non ha remore di mostrare una realtà spaccata in due mondi contrapposti e integrati nello stesso tempo e dove non basta un muro per impedire che vengano allo scontro.
Per continuare questa carrellata non possono mancare film come ‘Los Bastardos’ e ‘Helidi Amat Escalante’, autore più vicino a storie dal sapore noir moderne, dove la trama diventa un pretesto per analizzare i personaggi e la realtà particolare di un paese totalmente incomprensibile per un nordamericano o un europeo. ‘Aquí y Allá’ di Antonio Mendez Esparza, vero ritratto neorealista, antiretorico della ”vida vera” di un indocumentado, come vengono chiamati gli immigrati clandestini in Usa sottopagati, sfruttati, umiliati, proprio per il loro status. ‘Sul lago Tahoe’ di Fernando Eimbcke, ritratto surreale e variegato di un’umanità “altra” che in uno scenario apparentemente moderno convive con regole e convenzioni totalmente anacronistiche.‘Bella’ di Alejandro Gonzales Monteverde, ovvero come riscrivere il melò ai tempi della crisi di coppia, dei socials, dove ogni passione umana scivola nella liquidità del virtuale. ‘La Gabbia dorata’ di Diego Quema da Diez, dove l’avventura e il sogno si intrecciano sotto uno sguardo duro e violento di un american dream agonizzante. ‘El Premio’ di Paula Markovitch, sguardo femminile, pragmatico e intenso nello stesso tempo, di una società allo sbando visto dagli occhi di una bambina. ‘Los insolitos pecesgato’ di Claudia Sainte-Luce, ironico, irriverente, poetico. ‘El aula vacia’ di Nicolas Pereda, il miglior documentarista del Paese, uno dei migliori al mondo capace di unire immagini ed emozioni senza l’ausilio di una narrazione, parlandoci sempre di quello che non sappiamo cogliere con gli occhi dell’osservatore esterno in cerca spesso solo dell’esotico. ‘600 milas’ di Gabriel Ripstein esempio di opera post moderna che rifiuta un certo cliché stantio hollywoodiano, superandolo brillantemente, e soprattutto ‘Gueros’ di Alonso Ruiz Palacios, vera opera iniziatica di un viaggio formativo di ragazzi pieni di slancio vitale, con un montaggio innovativo, pieno di ironia e speranza nonostante si stia compiendo il fatidico passaggio verso l’età adulta vista sempre più come il regno dell’incertezza e dell’inquietudine.
Come possiamo notare stiamo parlando di un panorama di una ricchezza immensa che viaggia a un ritmo che neanche cinematografie con un’industria culturale consolidata nel tempo riescono a tenere.
Siamo alla presenza del vero “fenomeno” in senso strettamente kantiano: non riusciremo mai a comprendere la vera realtà della società messicana attraverso queste pellicole, ma possiamo coglierne in modo totale l’essenza. Credo che nulla possa farlo capire come l’appello disperato del Chino alla segreteria della figlia, il quale voleva cambiare il mondo ma è avvenuto esattamente il contrario. Quello che rimane è un profondo cinismo derivato dalla rabbia, dall’impotenza, dalla frustrazione. Ha il nome di un pitbull. Si chiama Nero.
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