Speciale Cinema d’Oriente: da Farhadi a Panahi fino a Ghaderi, ecco il nostro percorso alla scoperta dell’arte del cinema iraniano
di Jean Luc Dutuel
ROMA – Dal mese di Giugno, più o meno da quando ha suscitato emozione al Festival di Cannes un film-spettro si aggira per l’Europa, ed ora, dopo la candidatura all’Oscar anche negli Usa.
È un film spettro in quanto con le nuove leggi sull’immigrazione emanate da Trump, il regista, Asghar Farhadi potrebbe non essere presente alla cerimonia. Di solito gli autori all’Oscar non andavano per scelte personali, ora si torna ai “bei tempi” inibitori mcarthiani, gli iraniani sono persone non grate.
Il film di cui sto parlando è “Il Cliente”, vero evento del 2016, che in Italia, per i solti ritardi distributivi è uscito solo in Gennaio. Per fortuna nulla di grave, anche perché, a dire il vero, tutti i lavori di colui che dopo la morte del “maestro” Kiarostami è diventato il regista di punta del nuovo cinema iraniano, sono stati ampiamente distribuiti. About Elly 2009, Una Separazione 2011, Il Passato 2013, prodotto in Francia, sono passati più o meno fugacemente sugli schermi europei, creando un discreto gruppo di appassionati e rendendo la visione dei suoi films il classico “must”, epiteto che di solito si rivolge più ad autori a stelle e strisce come Scorzese o Tarantino. Nonostante Farhadi appartenga al cinema iraniano colto, è riuscito a far coesistere impegno e coinvolgimento nel suo cinema come solo i grandi maestri di un tempo riuscivano a realizzare. Certamente in Iran il grande pubblico preferisce Bollywood, Hollywood e i melò interni, spesso realizzati serialmente ma Farhadi ha avuto il pregio di portare un vasto pubblico nelle sale e soprattutto, e qui sta la grandezza che ne fanno uno degli autori massimi a livello internazionale, a mostrare la società iraniana in quanto tale, ovvero una società fortemente divisa in classi, incapace di reagire ad un passato che l’ha resa schiava di uno stato teocratico, più formale che sostanziale, accettato dalla ricca borghesia per mantenere i propri privilegi. Si è quindi scoperta o riscoperta una realtà molto vicina a quella occidentale, in cui la ricca borghesia sotto al chador o ad indumenti casual, mostra abiti delle migliori griffes e un livello culturale molto alto mentre le classi meno abbienti, che spesso soprattutto nelle zone rurali vivono molto al di sotto della soglia di povertà, tenuti nell’ignoranza e completamente dimenticati, si rifugiano oltre che nel crimine, nell’estremismo religioso più intollerante e violento.
In Europa il primo contatto con il nuovo cinema iraniano fu un film che si vedeva soprattutto nelle sale d’essai in Francia circa 25 anni fa. Il film si intitolava Close-up 1990 ed è la riproposizione filmata in stie docu-film di un fatto veramente accaduto. Un disoccupato, spacciandosi per il regista Moshen Makhmalbaf si presenta ad una signora della Teheran bene per estorcere una somma di denaro neanche così esosa (duemila toman) per un ipotetico progetto cinematografico. Scoperto, subisce il processo. Il film parte da un prologo di pura fiction in cui un regista si dirige con la gendarmerie nella casa della signora truffata, intervista i protagonisti dell’accaduto e chiede il permesso di filmare il processo in aula. Lo spettatore non sa che i personaggi sono rimasti nove ore in più in aula, una volta finito il vero processo, per filmare le scene del films. Così mentre pensiamo di assistere ad una semplice ripresa di un evento reale stile reportage, sta invece andando in scena un normale film stile documentario. Durante il processo noi vediamo esclusivamente il volto del protagonista in primo piano, ecco il close-up del titolo, che risponde alle domande del pubblico ministero fuori campo. Quando ci siamo adeguati alla situazione realistica, con un flashback di pura fiction, il regista segue l’impostore nell’atto di adescare la ricca signora, mostrandoci che siamo realmente assistendo ad un film e spiazzandoci di nuovo. Il regista si chiama Abbas Kiarostami ed è morto lo scorso anno lasciando un vuoto incolmabile nel cinema d’autore. E’ stato prima di tutto un documentarista, ma anche pittore e scultore. Artista tout court che nel corso della sua carriera mai abbandonerà la poetica del “vero come la finzione”. Non si è mai voluto basare su una sceneggiatura articolata ma si è sempre lasciato trasportare dall’occhio anarchico della mdp. Il cinema è ciò che vede la mdp, ancora prima dell’occhio umano. Una visione dell’immagine molto vicina a quella di Godard, suo grande estimatore, che ha anche affermato “il cinema inizia con i fratelli Lumiere e finisce con Kiarostami”.
A conferma di questa sua idea basta vedere il suo film fondamentale, Palma d’oro a Cannes, Il Sapore della ciliegia 1997. La differenza rispetto ai suoi lavori precedenti è l’introduzione della ripresa su mezzi in movimento che conferiscono maggior dinamicità all’immagine ma la sostanza non cambia. Un uomo, anche lui ripreso per quasi per tutto il film, in campo medio stavolta, cerca qualcuno che lo seppellisca dopo il suicidio nella lontana periferia di Teheran. Da un punto di vista strettamente laico, Kiarostami si interroga sul senso della vita, dovere o scelta, per poi ricordarci nel finale, che, come sempre, stiamo vedendo un film. Il cinema non è sogno, appartiene alla vita reale. La nostra partecipazione mattonella (rituale) della visione è, e deve essere, attiva.
Già collaboratore di Kiarostami e di spiccata poetica neorealista sono i films di Jafar Panahi. Nel Palloncino bianco 1995 seguiamo le varie difficoltà che può incontrare una bambina di sette anni che cerca di comprare un pesce rosso, simbolo di vita nella cultura iraniana, per il capodanno imminente per 500 toman, equivalente di un dollaro. Nel successivo Lo Specchio 1997 torna il tema del viaggio, sempre di una bambina, stavolta “dimenticata” dalla madre che non è andata a prenderla a scuola. Deve tornare a casa in bus da sola e si perde per la prima volta tra luoghi, suoni, odori, persone di una caotica Teheran. Vera epifania verso un percorso di crescita. Il film che però lo consacra a livello internazionale è Il Cerchio, vincitore a Venezia nel 2000. Ora lo sguardo di Panahi sembra più maturo e può sperimentare un cinema postmoderno superando le tematiche neorealiste. Protagoniste infatti sono otto donne che devono fuggire per evitare il carcere per dei reati mai commessi ma che una società rigida come quella islamica esige di punire. Il Cerchio è uno dei primi esempi di narrazione a struttura circolare tipica del cinema iraniano, dove le vicende apparentemente scollegate delle protagoniste si congiungono in un finale aperto. Allo spettatore attivo, concentrato, come diceva Kiarostami, il compito di ipotizzare la conclusione della storia. Purtroppo nel 2010 il regista è stato condannato a sei anni di carcere e il film Taxi Teheran che ha vinto a Berlino, sicuramente interessante, non aggiunge nulla alle sue opere precedenti, anzi sembra un passo indietro. Due ipotesi possibili: il premio è stato dato per sensibilizzare l’opinione pubblica occidentale nei confronti dell’artista, o l’esatto contrario, al fine puramente strumentale per fomentare la propaganda politica occidentale nei confronti dell’Iran.
Su un fatto molti critici presenti sono concordi: non vi è stato nulla di artistico in questa scelta.
Tra l’altro il professore di letteratura comparata alla Columbia, iraniano anche lui, Hamid Dabashi, ha sempre stigmatizzato il ruolo degli intellettuali a cui viene riconosciuto un ruolo di privilegio rispetto ad altri oppositori detenuti nelle carceri di massima sicurezza del paese nel silenzio dell’opinione pubblica internazionale.
A proposito di immigrati iraniani illustri, in Usa ce ne sono molti, spicca sicuramente il nome di Amir Naderi. Ancor prima di Kiarostami nel 1984, è colui che ha portato il cinema iraniano alla ribalta mondiale con The Runner, film per quanto lui stesso non voglia ammetterlo, decisamente autobiografico. The Runner sta al nuovo cinema iraniano come ‘Les quatrecents coupes’ sta alla Nouvelle Vague francese. Dove Truffaut mette in scena la sua infanzia in stile nouvelle vague, così fa Amir Naderi ma in chiave neorealistica. Va infatti ricordato, che l’attuale regista viveva per la strada da ragazzo vendendo frutta, riciclando carta. Il film parla di Amir un bambino che vive nelle strade di Teheran. Riesce quindi ad andare a scuola ma ovviamente il suo contatto con gli altri all’inizio risulterà traumatico. Abbas Nazeri, il protagonista, non è un attore professionista ma i suoi sguardi, le sue espressioni sono di un’intensità dirompente.
Dopo molti films indipendenti prodotti in Usa con risultati non esaltanti, dopo 32 anni, finalmente Naderi è tornato ad un cinema di grande respiro girato proprio in Italia con il suo ultimo lavoro Monte 2016. Film che al di là della lotta uomo-natura, è intriso di una forte carica simbolica sulla volontà di restare aggrappati alle proprie radici, (il protagonista vive infatti da solo in una terra arida e montuosa), per evitare di essere contaminati da quella civiltà che negli ultimi tempi non sembra essere poi così “civile”.
Altro esponente della nuova cinematografia iraniana è proprio Moshen Makhmalbaf citato in precedenza. Con Viaggio a Kandahar del 2001 firma uno dei film fondamentali del nuovo millennio. Una donna iraniana, Nafas, immigrata in Canada deve raggiungere la sorella a Kandahar appunto, che in forte stato depressivo minaccia di suicidarsi.il viaggio di Nafas è il cuore di tenebra dei nostri giorni. Campi minati dove le persone reclamano protesi artificiali, convinti che prima o poi verranno mutilati, medici che per le rigide leggi coraniche non possono avere contatti con il corpo nudo di una donna e sono costretti a “visitarle a distanza”, cadaveri che vengono spogliati dei vestiti, bambini armati di kalashnikov. Registra tutto nascosta dal burkha. È probabilmente il film manifesto del periodo che viviamo, importante anche perché uscito e (colpevolmente) ignorato prima dell’11 Settembre. Un’altra prova, se ce ne fosse bisogno, che il cinema vero, quello che comunica le grandi storie, arriva sempre prima della realtà.
In una società considerata arretrata (ma rispetto a chi a cosa?) e sappiamo che non è vero, 120 donne nel Majles (parlamento), media superiore all’Italia, spicca il numero di donne registe. Abbiamo Samira Makhmalbhaf, figlia appunto di Moshen, che con Lavagne, illlustra il difficile percorso dell’alfabetizzazione tra le montagne del Kurdistan in cui imperversa il conflitto Iran-Iraq, dove i maestri vagano con la lavagna sulle spalle per cercare allievi da istruire.
Shirin Neshat, che con Donne senza Uomini, illustra la difficile situazione di quattro donne negli anni ‘50 dopo il colpo di Stato in cui gli angloamericani destituirono il premier della coalizione del centro sinistra laico Mossadeq per instaurare il regime dello Shah. Appartengono a quattro ceti differenti della popolazione, e subiscono le violente conseguenze della nuova situazione politica attraverso la segregazione fisica e psicologica fino all’autoannullamento. In Iran, la donna vive questo tipo di contraddizione. Sa di avere parità di diritti ma non riesce, soprattutto nella vita privata, ad affermarsi per rispetto della tradizione della legge coranica e dello stato, che poi sono la stessa cosa. Anche le donne più emancipate, quelle laiche e borghesi, che hanno jeans e t-shirt sotto il chador, soffrono per una situazione anacronistica alla quale solo un ritorno ad una repubblica può porre fine. Un film di forte denuncia realizzato con lo stile innovativo del videomaker.
Autore molto sensibile al tema femminile è Babak Payami. In ‘Silenzio tra due pensieri’ (2003), girato nella regione montuosa dell’Elburz, in un Iran arcaico, una donna condannata a morte ha la pena sospesa in quanto vergine. Secondo la legge coranica le vergini non vanno all’inferno. Al boia incaricato di eseguire la sentenza viene proposto di sposarla, sverginarla e ucciderla. L’uomo più la conosce e più si rende conto che non potrà ucciderla ma in questo caso tradirebbe la comunità, il gruppo a cui appartiene che è tutto ciò che possiede. Si chiude quindi in un silenzio da cui non riesce a riemergere. Film condannato dalla censura, impossibile oggi trovarlo nella versione in cui fu presentato a Venezia, risulta pieno di tagli e ridotto di almeno venti minuti. Payami è stato espulso dal Paese e condannato all’esilio in Germania.
Bahman Ghobadi è autore di due film molto diversi tra loro. Ne Il tempo dei cavalli ubriachi (2000), in un villaggio curdo, borderline, tra Iran e Iraq, dove si combatte una guerra dimenticata, una giovane ragazza accetta di sposare un ricco commerciante iracheno per garantire le cure al fratello più piccolo affetto da una malattia rara. Anche in questo film traspare la tematica dell’infanzia perduta. Sembra di tornare a ‘Germania anno zero’ di Rossellini o a ‘Jeux interdits’ di René Clement. Diverso, molto più vicino ai musical americani I Gatti Persiani 2009 dove una rock-band di Teheran cerca dei luoghi dove suonare, in Iran è rigorosamente vietato, ma per farlo devono fuggire. Interessante spaccato sulla gioventù contemporanea che vede l’occidente come un’isola felice, un’opera sospesa tra il cool e il consolatorio.
In conclusione possiamo già menzionare i nuovi autori che stanno già prendendo il posto della generazione nata venti anni fa. Su tutti Kiarash Asadiadeh autore del notevole Acrid-Storie di donne (2013), Vahid Jalivand, Un Mercoledì di Maggio (2015) e Mehdi Fard Ghaderi autore dell’ottimo Immortality già recensito all’ ultima Festa del Cinema di Roma.
Tanti i temi di regime, la divisione in classi, l’infanzia perduta, il ruolo reificato della donna nella vita privata, ma l’immagine che più mi ossessiona è l’eclissi della scena finale di ‘Viaggio a Kandahar’ metafora della morte. Come diceva Kiarostami, cinema e vita si riflettono come in uno specchio, e anche se Nafas non è riuscita a salvare sua sorella, questa la metafora dell’eclissi, ha fatto comunque molto: ha salvato la cultura iraniana, ancora viva grazie al cinema.
Immagini: google
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