di Jean Luc Dutuel
Roma, giovedì 17 novembre 2016 –
Il termine setta non deriva solo dal verbo latino ‘sequi’, ‘seguire’ ma anche da ‘secare’, tagliare, tagliare fuori. Ora, non ci vuol molto a traslare il verbo ‘tagliar fuori’ con il suo sinonimo di uso comune nel lunguaggio attuale, ovvero disconnettere.
Disconnessa. Questa e’ Giulia, la nostra protagonista de “La Ragazza del mondo” di Marco Danieli (nelle sale da alcuni giorni), scollegata nell‘Italia del 2016. Giulia, non ha iphone, smart phone, tablet, pc, neanche la vecchia tv. Questo perché Giulia e tutta la sua famiglia sono Testimoni di Jeovah.
Era praticamente impossibile narrare di un’educazione sentimentale flaubertiana (quindi impossibile) nei tempi attuali, escludendola dai new media. Basta fare un salto in una qualsiasi libreria e sembra che il termine amore, e i vari i- phone, smart phone, web non possano rimanere scollegati. L’amore ai tempi del web, Amore e Reality, Amore virtuale, Love in connection, I-phone you love, Love Smart phone, Whazup amore.
Anche il cinema, proprio quello italiano, ha trovato nei cellulari ultimamente, nuove frontiere narrative. Proprio però per evitare il trend di una dilagante inflazione da genere “multimedia” nelle sale, era notevole un’idea che riportasse tutto al “com’era prima”, per parlare in maniera attuale delle persone, dei corpi, del contatto umano, quello reale intendo, e l’esordiente attenzione – sottolineo esordiente – Marco Danieli lo ha realizzato.
Un’ idea che non ha nulla di fresco, allegro, seducente, come recitano i banners di tante pellicole giovanilistiche, ma e’ crudelmente vera. Vera come Giulia, che non può possedere nulla che la metta in contatto col mondo, e vive come una ragazza ai margini, una borderline della fede. Fuori quindi dagli schemi delle ragazze attuali, chiusa in una gabbia famigliare, derisa a scuola, dove mostra doti non comuni – e’ un genio della matematica – trascorre le sue giornate a divulgare door to door la parola di Dio.
Come una nouvelle Frederic Moreau, il “mondo”, secondo l’accezione della setta sinonimo di corruzione materiale e spirutuale, gli scorre davanti ma lei non può coglierlo, imprigionata in dogmi incomprensibili, anche proseguire gli studi, l’università risulta essere un male, vive disconnessa appunto ma non da un i- phone o da un tablet, ma dalla vita. Troverà la sua Madame Arnoux, ovvero la sua perfetta antitesi, che gli permetterà di iniziare un nuovo percorso di crescita, in un piccolo spacciatore della periferia romana e dovrà “sporcarsi” di quel “mondo”, di quella vita, per trovare finalmente sé stessa.
Danieli narra in fondo una favola dai toni ora melò, ora crudeli ma senza falsa retorica, senza mai voler compiacere lo spettatore e sappiamo quanto il cinema italiano di oggi, soprattutto quello premiato, soffra di questo morbo. Non dovrermmo provare empatia per Giulia, troppo distante la sua realtà. Lei e’ una diversa scomoda, troppo semplice – direi banale. Perteggia per un immigrato del terzo mondo, per un loser per una donna o un bambino abusati sessualmente, ma alla fine questo accade. Troppo forte il carattere di questa ragazza, fragile in apparenza ma che la militanza settaria ha reso risoluta nelle sue scelte, giuste o sbagliate che siano. Il regista sceglie una strada tortuosa che però porta ad un percorso di formazione fondamentale, profondamente umano, in questo senso ironica e magistrale la doppia sequenza simile ma antitetica, in due momenti diversi del film, in cui lei prova a “vendere” la parola di Jeovah door to door nella desolante periferia romana, subendo piccole e grandi frustrazioni e invece quando indossa lo stesso abito per vendere droga, prodotto reale, tangibile, prodotto del “mondo”, può interagire con gli altri su uno stesso piano, e sentirsi semplicemente’ viva.
Frequente l’uso del PPP (primissimo piano) soprattutto sulla protagonista, gelida l‘illuminazione per gli ambienti chiusi come la sede della setta, la scuola, il mobilificio, più scuri i toni in casa, sia con la famiglia che con il suo amante, più vivi, radiosi, quasi solari gli esterni a voler sottolineare che e’ la fuori, solo la’ che risiede la realtà, quello che ci fa essere autentici, veri.
Ottimi gli attori comprimari come Pippo del Bono, Lidya Libermann. Molto bravo Michele Riondino ma una speciale menzione merita Sara Serraiocco, perno su cui ruota tutto il film, forse il vero motivo per cui bisogna andare a vederlo. Si era già segnalata in “Cloro” e “Salvo”. Passa da un’impassibiità al limite della catatonia, alla rabbia, all’ironia, alla malizia, alla frustrazione, alla commozione con una naturalezza che solo le “specials” hanno. Ecco, se questa e’ una “special”, il mio consiglio e’ di non relegarla in ruoli minori, che ormai nel cinema italiano e’ sinonimo di miseri, ma piuttosto valorizzarla perche’ talento ne ha da vendere. Quello che mancava a Frederic Moreau.
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