Alla Scuola di Psicoterapia Etno-Sistemico-Narrativa di Roma, la psicologa Nathalie Zajde Nathan spiega le sfide dell’etnopsicologia
di Daniela Vercillo
ROMA – Sabato 28 gennaio la Scuola di Psicoterapia Etno-Sistemico-Narrativa di Roma, nell’ambito delle sue proposte formative, ha ospitato Nathalie Zajde Nathan. Psicologa clinica di grande esperienza nella cura dei traumi individuali e collettivi, delle violenze di genere e di quelle legate alle migrazioni. Introdotta da Natale Losi, direttore della Scuola ESN, Zajde ha aperto il seminario dichiarandosi fiera di far parte dell’équipe clinica più vecchia e al tempo stesso più rivoluzionaria.
Quella del Centre Georges Devereux di Parigi, fondato nel 1993 da suo marito, lo psicoanalista Tobie Nathan, per rispondere in maniere più adeguata alle richieste di cura psicologica delle persone migranti. L’esperienza clinica fatta nel 1979 all’ospedale Avicenne di Bobigny, aveva permesso a Tobie Nathan di capire e conoscere meglio i giovani e le famiglie migranti. E di riconoscere i limiti della psichiatria e della psicoanalisi come strumenti di cura con persone di altre culture.
La metodologia da lui proposta, nata proprio dalla pratica clinica, amplifica lo sguardo “occidentale” sulla salute, sulla malattia e sulla cura, affiancandogli e riconoscendo pari dignità alle terapie tradizionali in uso in ogni cultura. Il setting terapeutico viene così contaminato dall’antropologia e dall’etnopsichiatria di Georges Devereux, e accoglie il materiale culturale dei pazienti come una leva terapeutica capace di generare complessità e approfondimento. Viene messo a punto il dispositivo etnopsichiatrico, una consultazione di gruppo la cui composizione multietnica e multidisciplinare (psicologi, antropologi, mediatori etnoclinici, etc) favorisce la costruzione di un sistema terapeutico ispirato alla cultura d’origine del paziente, rispettoso della lingua, delle sue relazioni familiari, dei suoi oggetti di culto, dei suoi esseri invisibili, dei suoi riti.
Accogliere e curare persone provenienti da altrove, non può prescindere dal mantenere il legame con la cultura di appartenenza. Rinforzare quegli “attaccamenti” di cui parla Zajde, proprio grazie ai quali le persone migranti possono sentirsi libere di avventurarsi con più sicurezza in contesti sconosciuti. Grande importanza riveste all’interno della consultazione terapeutica la figura del mediatore etnoclinico, capace di tradurre, non solo letteralmente, e dare senso alle parole del paziente.
Perché, ci piaccia o no, se il nostro sapere è validato da riconoscimenti gerarchici e accademici, altri saperi vengono riconosciuti e approvati in base alla loro efficacia, direttamente da chi ne beneficia. Del resto, fa notare Nathalie Zajde, anche in occidente siamo chiamati ad ascoltare i pazienti e a rivedere i nostri modelli, ad esempio con quei pazienti con diagnosi di schizofrenia che rifiutano farmaci ed etichette spersonalizzanti, preferendo quella più corrispondente e poetica di “ascoltatori di voci” e chiedendo di essere parte attiva nella terapia. La sfida della contemporaneità, e non solo per gli psicoterapeuti, è dunque quella di porsi all’ascolto della ricchezza e della diversità. Senza visioni aprioristiche, anche perché nessuna teoria riesce a produrre un pensiero che possa spiegare ciascun gruppo culturale. Un esempio su tutti il complesso di Edipo freudiano, che trasportato in società e culture con una diversa struttura della famiglia e delle relazioni, perde significato e potenza evocativa.
Dopo la mattinata introduttiva sull’approccio etnopsichiatrico, la Zajde ha dedicato il pomeriggio alla trattazione di alcuni casi clinici, soffermandosi in particolare sull’esperienza fatta in Guinea, con le donne stuprate nel corso del massacro avvenuto il 28 settembre 2009 a Conacry. Una carneficina pianificata, diretta in particolare sui membri dell’etnia Pehul, gruppo a prevalenza musulmana, che Zajde racconta in dettaglio, esplicitando come il trattamento delle singole storie cliniche non possa prescindere dal loro inquadramento nella Storia. E dalla considerazione dell’impatto che gli accadimenti politici hanno sulla vita dei singoli individui, delle famiglie e delle comunità. Queste narrazioni hanno molto emozionato e sollecitato la platea che è intervenuta con domande e feedback a conclusione della giornata. Tra gli altri Carol Djeddah Losi, didatta della Scuola ESN, e Augusta Angelucci, psicologa dell’AO S. Camillo Forlanini, hanno portato la loro esperienza con donne vittime di violenza in Rwanda e in altri contesti post-conflitto.
Inevitabili alcune riflessioni sull’approccio etnopsichiatrico proposto dall’équipe del Centre Georges Devereux: il rischio di appiattire l’individuo sulla propria cultura d’origine e di non considerare come questa venga prodotta e si trasformi nelle interazioni sociali; l’impossibilità per gli operatori dei servizi socio-sanitari di conoscere perfettamente le diverse culture; la sostenibilità dei costi; il ruolo della diagnosi. Anche in Italia sono state sperimentate esperienze simili, generate dal modello francese. Tra queste, quella della Scuola di Psicoterapia Etno-Sistemico-Narrativa che ha promosso il seminario, e che a partire da alcune revisioni teorico-metodologiche apportate da Losi, propone un’originale modello per la presa in carico delle persone migranti e autoctone, messo in pratica presso il servizio di ascolto psico-sociale afferente alla Scuola.
Centrale e condivisa da tutti è la dimensione politica della psicologia e della psicoterapia sottolineata da Zajde, e la considerazione che l’etnopsichiatria, nelle sue diverse declinazioni, può diventare un modello concreto di psicoterapia della modernità.
Foto: in alto, Natale Losi e Nathalie Zajde Nathan
© Riproduzione riservata
Comment here