di Jean Luc Dutuel
Roma, martedì 28 febbraio 2017 –
Cinema – L’Oscar no. Mai come quest’anno, non avevo intenzione di scrivere sull’Oscar, il ritorno del musical, bla, bla, per carità.
Invece la mia gatta mi ha svegliato, ho acceso la tv e il caso ha voluto che vedessi. E ho visto. L’Oscar è uno specchio importante dell’America e dei tempi che viviamo e il cerimoniale non riesce mai completamente ad isolarsi dal brusio del mondo esterno. Negli anni passati sono andati in scena discorsi contro Eisenhower, boicottaggi per il Witchunt McCarthiano, rifiuti del premio stesso e quest’anno il Rust Belt. Rust Belt vuol dire “cintura di ruggine”, e comprende Pennsylvania e Ohio, due stati con maggior concentrazioni di fabbriche, il vero cuore pulsante del Paese. In questi anni i lavoratori di questa enorme area hanno conosciuto licenziamenti a catena, riduzione del minimo salariale, aumento delle ore lavorative, collaborazioni semestrali, in pratica hanno vissuto al di sotto della soglia di povertà, i cosiddetti invisibili che poi hanno voluto dare fiducia a Trump.
Hollywood ha messo quindi in scena l’offensiva contro colui che non rispetta il diktat dell’establishment. Ha preso venti persone, attori, comparse, persone qualunque, in fondo non è importante, si sono caricate su un bus e sono state fatte entrare nel Dolby Theatre per vedere in carne e ossa i loro idoli. Un corto di una decina di minuti va in scena all’interno di uno degli eventi mediatici più seguiti del pianeta. A questo punto cosa può fare la Fabbrica dei Sogni gestita dalla Gulf and Western, dalla J P Morgan, dalla Sony, dalla Goldman Sachs se non rendere visibili gli invisibili? Dando loro spazio, facendogli capire che senza il loro aiuto si finisce come nel ‘29 e che stavolta non arriva Roosevelt e/o una guerra mondiale a salvare il Paese, stavolta si finisce sotto il regime di una scheggia impazzita. Già perché secondo questi gruppetti di potere loro ( “i mediocri”) devono capire che il presidente miliardario inviso dai ricchi miliardari e benestanti di “sinistra” è il “male assoluto”. Attraverso Hollywood a questi “poveracci” è stata tesa una mano lanciando il messaggio subliminale:
«aiutateci e tra quattro anni, magari anche prima, per voi tutto cambierà. Il vostro uomo (Trump) è pericoloso, e va rimosso. Abbiamo sbagliato a intraprendere la strada della “democrazia” della finanza speculativa che in questi anni vi ha distrutto tutto, pensioni, scuole, salari e non vi garantisce ancora un sistema sanitario gratuito, chiamasi welfare. Abbiamo sbagliato anche in politica estera dove i vostri figli, amici, conoscenti arruolati nei reparti stanziati in Iraq e Siria sono andati a morire per i “nostri” interessi…».
Un miliardo di spettatori domenica sera ha visto premiare il film di Asgar Farhadi, regista iraniano bloccato dal nuovo Terrorism Act che attraverso i suoi delegati ha lanciato un messaggio contro questa norma, ha visto l’attore messicano Javier Garcia Bernal protestare contro il muro al confine, ha visto gli scroscianti applausi che seguivano a queste ‘belle parole’. Ha visto scippare la statuetta ad un film modesto ma di vero disimpegno da un film ancora più modesto ma afroamericano e di falso impegno. Ha visto l’errato vincitore comportarsi con un fair play da fare invidia. Ha visto l’ennesimo enorme, immenso, rutilante show.
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