di Jean Luc Dutuel
Roma, sabato 10 giugno 2017 –
Cinema – La sera prima che cominciasse la 70esima kermesse del Festival di Cannes (svoltosi dal 17 al 28 maggio) in uno stato di dormiveglia molto cinematografico,
ho assistito ad una interessante intervista del canale Artè a Laura Morante. L’attrice sosteneva che «un bel film non è comunicazione (ma ancora fa effetto questo termine?) non è empatia con lo spettatore, non è emozione elementare, facile dicotomia riso-pianto, ma come ogni forma d’arte qualcosa che “ti cambia”». Se veramente c’è un sostrato immateriale in ognuno di noi e l’autore riesce a smuoverlo, a rendere partecipe lo spettatore, quello attivo ovviamente, quel film, o opera d’arte che sia, scultura, pittura, fotografia, graphic novel, letteratura, cambia la prospettiva con cui vediamo la realtà, che certe false certezze cristallizzate in noi dalla cultura dominante hanno sedimentato. Se poniamo questa riflessione su Cannes appena trascorso non esiste opera alcuna che mi abbia creato questo effetto. Ero forse già invaso da preconcetti e impermeabile a nuove situazioni narrative? L’età mi porta verso precoce senilità? Non ho più l’attitudine allo stupore e alla meraviglia di un tempo? Ancora non trovo una risposta. Iniziamo quindi il viaggio in questa quinzaine come un Sokurov perplesso che gira nei musei, macchina in spalla, per capire e magari trovare, sempre che esistano, spunti di riflessione.
Iniziamo dalle donne. Tre: Sophia Coppola, Lynne Ramsay e Naomi Kawase. Male, anzi malissimo.
La prima, Sophia Coppola, si è creata un’aurea nella solita cerchia di critici cool nella ricerca di uno stile impossibile. Scimmiotta Antonioni, Visconti, ora un remake di una pièce che 50 anni fa ha scandalizzato Broadway. Così forte e potente che la coppia Siegel-Eastwood porta al cinema nel 1970 con il titolo The Beguiled (L’inganno), perdendo ogni stima dei loro fans e guadagnandosi lo strameritato appellativo di film cult. Due attrici inarrivabili come Geraldine Page ed Elizabeth Hartman. Un film perfetto di cui non esiste dvd in Italia (prego, provvedere!), che non aveva bisogno certo di uno stereotipato remake. Ma lo si può realizzare di un cult? Il prossimo sarà Ultimo Tango?
La seconda, Lynne Ramsey con ‘You never were really here’ conferma la sua propensione al ”cinema virile al femminile”. Qualcosa non torna. Sembra un posa per seguire le orme di Katherine Bigelow. Non esiste un cinema maschile o femminile esistono delle attitudini proprie degli autori. Malick ad esempio può essere molto sensibile: la Ramsey confezione un’opera formale interessante dal punto di vista visivo, ma il voler essere rough and tough a tutti i costi la porta a perdersi in una narrazione fatiscente.
La terza, la giapponese Naomi Kawase con ‘Hiraki’ (Verso la luce) continua il suo percorso pericolosamente affetto da un sentimentalismo estremo e sappiamo quanto il cinema soffra di questo male. Mi sembra fuori dal tempo. Capisco che la Kawase abbia maggiore talento delle altre due ma insistere su queste corde è puro masochismo.
La polemica di Netflix.
In Sud Corea sembra la vera atomica, tutti guardano films su Netflix e si producono films come Okjia di Bong Joon Ho. Fiaba stereotipata e melensa con bimba e maialone, inteso come maiale gigante. E’ ovvio che se una piattaforma è creata per films su tablet o pc i contenuti devono essere tra “viaggio comfort stile business class” e il massaggio rilassante e tonificante stile spa. Si attendono musiche lounge.
Film come in tv.
Rodin di Jacques Doillon. L’ennesima vita romanzata dell’artista realizzata nei modi tediosi del melò televisivo, badando a eliminare tutto ciò che possa nuocere al grande pubblico. Lo manderei a lezione da Jarman e consiglierei di guardarsi più volte Caravaggio e Wittgenstein.
Meyerowitz Stories di Noah Baumbach. Invece di continuare a produrre commedie in salsa yiddish newyorkese, si potrebbe portare sullo schermo Will Eisner, il suo ‘Contratto con dio’ credo sia una delle opere migliori del novecento. Bussiness as usual. Continuiamo così ad annoiare il pubblico con battute scontate. Viene definito humour cerebrale. Presente Adam Sandler e questo dice tutto.
Aus dem nichts di Fatih Akin. Il regista turco tedesco autore di film come “La sposa turca” si perde in un crime storia all’americana con Diane Kruger che come molte attrici che hanno recitato con Tarantino si sentono in obbligo di rimanere sui binari del rough and tough. Stereotipo al contrario.
Woonderstruck di Todd Haynes. La stanza delle meraviglie. Haynes dopo Carol ha capito che raccontare storie torbide con lo stile degli anni ‘50 piace ad una certa critica pronto ad esaltarlo. Stavolta fotografia e immagini sono formalmente di grande impatto, il contenuto è stato completamente eliminato. Riflessione sulla noia?
Krotkaya- Una donna dolce di Sergei Loznitsa. Ispirato alla Mite di Dostoevskij, Loznitsa sembra girare la brutta copia di Viaggio a Kandahar. Dostoevskij al cinema non funziona. Stiamo parlando del “più grande scrittore di sempre”. Si può rubare qualche dialogo, citarlo indirettamente ma non potrà mai essere riprodotto su uno schermo con risultati superiori a quanto già letto.
A questo punto urge una mia piccola confessione. Questi film mi hanno deluso a tal punto che non sono riuscito a vederli fino alla fine. Alcuni li ho abbandonati dopo una mezz’ora, vedi Coppola, altri sono arrivato a una ventina di minuti dalla fine. Analizziamo ora i films che ho visto fino all’ultimo titolo di coda.
120 battiti al minuto di Robin Campillo. Lo definirei lo Chez nous sull’Aids. La storia di Act Up nella Parigi di circa trent’anni fa, il movimento che si opponeva al Big Pharma colpevole di ritardare la commercializzazione dei farmaci anti-aids. Da questa contraddizione, ovvero il perché’ una corporation non produce medicinali a costi elevati che darebbero lucrosi profitti e preferisce che la piaga dilaghi? Un grande regista sarebbe andato oltre per capire le motivazioni, o le avrebbe create ad hoc. Campillo si perde nella descrizione di fatti ormai risaputi, nelle storielle sentimentali, nel politically correct. Un reportage, niente di più.
The Square di Ruben Östlund.La Palma d’oro. Adoro la Svezia, il cibo svedese, il cinema svedese, anche quello attuale nonostante un grande scetticismo generale, ma The Square non convince. Prima parte demenziale che ricorda le peggiori ma forse anche le migliori soap comedy hollywoodiane, nella seconda parzialmente l autore si riscatta ma siamo lontani dal black humour di Andersson.
Le redoutable di Michel Hazanavicius. Non capisco perché ormai ogni volta che si parli degli anni ‘60 molti spettatori e critici storcono il naso. Ho trovato il film di Hazanavicius su Godard, è lui lo scontroso del titolo, ben interpretato da Philippe Garrel, molto divertente, un bel viaggio in un mondo sempre da riscoprire, gli anni ‘60 e per cui a volte provo una grande invidia. Chi non li ha vissuti, in linea con i tempo attuali, li demistifica, mentre chi c’era pensa ad un’epoca come tante, ma non è così. Il film è interessante e meno invasivo del noioso Dreamers di Bertolucci. E’ tratto dal romanzo della moglie e sua attrice Anne Wiazemski. Abbiamo una nuova immagine di Godard visto dalla prospettiva di chi per diversi anni gli è stata vicino, e proprio da un personaggio così straordinario si è nutrita di quella linfa culturale che le ha permesso di intraprendere una carriera in un campo diverso come quello della scrittura.
Good Time di Benny e Josh Safdie. Che attore Robert Pattinson. E’ strano il cinema. Se Cronenberg non si fosse accorto di lui avrebbe finito per diventare una parodia del personaggio di Twilight, che forse parodia già lo è. Dovete sapere che le progredite Indies productions produzioni indipendenti degli stati uniti colti quelli dell’Est, Boston, Philadelphia, Baltimora e New York realizzano per l’esclusivo mercato interno qualcosa come cento film all’anno. Quanti ne arrivano? Dipende dal Sundance, comunque massimo un paio. Questo film rappresenta la vetta di questo tipo di cinema per cui vorrei ancora con orgoglio usare un termine come “artigianale”.
Ge Hu. Il Giorno dopo di Hong Sang Soo. Ancora un film interessante del prolifico autore coreano. La Sud Corea è veramente una delle cinematografie di punta attualmente. Bianco e nero molti dialoghi, la sua musa, Kim Min Hee una delle migliori attrici del momento, peccato che films così intimistici con gli stessi attori finiscano per assomigliarsi e sia facile confonderli. Più che un film intero sono alcune scene che rimangono nella mente dello spettatore. Un genio della frammentazione.
The killing of a sacred deer di Yorgo Lanthimos. Liete e dolenti note. Sovrapposte come nell’ esperimento del gatto di Schrodinger. Tutti entusiasti. Doveva vincere. Non condivido. Farrel e la Kidman si trovano a loro agio nella recitazione fredda e asettica ma non sono così straordinari. La forma e lo stile con le lunghe carrellate, la fotografia, la desaturazione dei colori, ne fanno il migliore del festival ma il contenuto? Sembrerebbe non conti più. Non vedo grandi riferimenti, (hanno citato Sartre, Girard, Euripide in conferenza stampa), almeno così consapevoli. La storia sembra un pretesto per dimostrare l‘ego smisurato dell’autore e alla fine rimane veramente poco.
Loveless di Andrej Zvjagincev. Se si doveva dare una Palma d‘oro, dubbi non ce ne sono, doveva essere sua. Si sa l’arte non è scienza, tutto è opinabile ma il film migliore era questo. Diciamo che è il classico film che negli anni ’60 tutti avrebbero visto e di cui si sarebbe parlato molto. Oggi è relegato nel limbo, lo vedranno in pochi. Il grande pubblico (ma esiste ancora per questo tipo di film?) aspetterà i press echoes per capire se è “carino”. È un tam tam mediatico, più l’opinione pubblica spinge su un film, più lo spettatore si autoconvince che sia opera degna di visione e soprattutto estetica. Come si capisce dal titolo Zvjagincev non vuole creare false speranze o facile empatia con il pubblico. La famiglia protagonista sprofonda nel baratro. Punto. Segno dei tempi. Immagine livida, fotografia molto ricercata, ancora una prova notevole di un’altra cinematografia che nell era della distrazione di massa appare soffocata. Il tempo gli darà ragione, come sempre.
Happy end di Michael Haneke. Non l’ho inserito per ultimo giocando con l’allusivo titolo, è per ultimo perché Haneke rimane il mio autore preferito in un panorama scarno di figure di spessore. Non è il suo miglior film ma è quello che più si avvicina ai miei gusti strettamente personali. Perché’ si preferisce un grande autore rispetto ad un altro? Perché’ alcuni ci stupiscono con delle idee sicuramente geniali, altri come diceva la Morante “ti cambiano”. Haneke in ogni suo film cambia di qualche sfumatura, anche impercettibile sul momento, la nostra visione del mondo. Lo hanno distrutto, troppo freddo, distante, incomprensibile a volte, quello che spero è che queste critiche siano avvenute con onestà intellettuale, se così non fosse si aprirebbero reali sospetti sul futuro della settima arte, sempre più alla merce’ di una critica compiacente verso le majors e intollerante per chi continua film dopo film, con lucido e geniale raziocinio a smantellare “quello che resta” di un’avvizzita società borghese.
(Immagine da google)
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