In scena al Teatro Ar.Ma di Roma il “noir psicologico a tinte comiche” scritto da Daniele Falleri con Ivan Giambirtone nei panni del protagonista
di j.l.d.
ROMA – Un lettino retrattile che diventa poltrona per seduta psicanalitica, tavolo da obitorio, divano da soggiorno, una colonnina che diventa lastra tombale o asse portante per una palla di vetro da pesce rosso, un mobiletto di legno con un telefono decisamente vintage. E poi, una sedia per analista, un palcoscenico cubico, totalmente rivestito di telo nero a trasmettere una messa in scena che infonde sensazioni inquietanti, claustrofobiche, grottesche.
Con questo tipo di scenografia, ottimamente ricreata dall’ottima regia di Daria Veronese, si snodano le sette scene come fossero sette quadri, del testo che Daniele Falleri ripropone a vent’ anni dalla sua prima uscita con protagonista questa volta Ivan Giambirtone.
Autore di testi pluripremiati come Raptus, il Marito di mio figlio, Sacre famiglie, Daniele Falleri qui continua a mostrare, senza produrre tesi universali, che la famiglia tradizionale non esiste più, in modo del tutto naturale si è estinta. Se si ragiona in termini antropologici la famiglia non è una scelta, è una sovrastruttura come diceva Cocteau dove l’affetto, il rispetto, sono possibilità, non certezza.
Oggi poi ci troviamo di fronte ad un tipo di società che dietro la maschera della tolleranza universale, della scelta del gender, della discussione maschio-femmina, nasconde il volto più veritiero dell’indifferenza, della solitudine, dell’emarginazione, tanto da annullare ogni senso di appartenenza e identità individuale. Proprio da questo spunto, la perdita e la ricerca di un’identità soffocata, annullata, a volte da sé stessi, a volte dall’ambiente circostante nasce questa pièce.
La trama
La storia, se dovessimo seguire il plot narrativo, risulterebbe piattamente drammatica e probabilmente tediosa ma il grande pregio dell’autore e della regista è aver trovato la chiave giusta per coinvolgere lo spettatore teatrale, di solito molto attento, in una narrazione che varia dal grottesco, al surreale, al tragicomico.
Sillo, il protagonista mattatore della vicenda interpretato magistralmente da Ivan Giambirtone, è un dandy contemporaneo di mezza età, che veste con giacche e pantaloni dai colori forti, ed è proprio da lui che viene preso il titolo del testo. Sillo è sulle spine.
Non sa veramente il motivo di questa sua ansia, ricerca futili giustificazioni, va dall’analista senza successo, ma non trova, o non vuole trovare, la causa di questa sua totale insoddisfazione esistenziale. E’ stato viziato ma è anche frustrato, sin da piccolo da genitori molto oppressivo. Fa l’attore ma senza successo, va da un analista che non parla mai, l’ottimo Alessandro Solomino, spalla muta del protagonista, ha un rapporto decisamente particolare con il fratello minore, odia sua cognata, e ad un certo punto della sua vita decide di compiere una scelta decisamente drastica nei confronti della propria famiglia con sviluppi del tutto imprevedibili.
Sillo come detto, è sempre in scena e ogni volta appare sotto un’illuminazione differente, dai toni freddi del cimitero, dell’obitorio, ai toni caldi della penombra casalinga dove studia i suoi diabolici progetti, in una prospettiva enfatizzata, da suscitare un forte contrasto comico tra la serietà della vicenda e la forma in cui viene narrata, ma sarebbe proprio il caso di dire recitata, dal monologo del protagonista. E’ una persona sola perché non ha una sua identità, un personaggio al limite del pirandelliano, parla ad un’analista che probabilmente lo ascolta meno del suo pesce rosso Paquinito.
Non si può quindi relazionare con gli altri in quanto attore più fuori che dentro le scene, sempre sopra le righe, passa dall’anoressia alla bulimia, dall’euforia alla depressione con eccessiva facilità.
Il suo carattere è inacidito da situazioni che esistono solo nella sua mente ormai malata. Personaggio ambiguo, duale quindi, che non ha una via d’uscita se non la distruzione per sé e per gli altri.
Stretto tra l’essere e il dover essere in un mondo che etichetta tutto in modo rapido e superficiale, sceglie di annullarsi e di ricominciare una nuova vita attraverso una nuova identità, quella della persona che forse ama e che lui ha sempre desiderato essere.
La pièce è ironica, divertente e strappa applausi, ma getta più di un’ombra sulla società attuale. Il protagonista, nella sua lucida follia, risulta metafora di un mondo pieno di identità costruite, profili fake, per usare terminologie da social, dietro le quali, dietro il velo dell’ipocrisia, non resta che il nulla.
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